venerdì 27 maggio 2016

Riforma Costituzionale, il parere del matematico Odifreddi

Il passaggio da Berlusconi a Renzi coincide con un salto di qualità della politica autoritaria, che alle leggi ad personam del primo ha fatto seguire addirittura la Costituzione ad personam del secondo. Una Costituzione alla quale io sono contrario, e contro la quale voterò “no” al referendum confermativo, perché mi sembra che essa offenda l’elettorato su tre piani diversi: per il “chi”, il “come” e il “cosa”.
Il “chi” si riferisce ai soggetti politici che hanno voluto, stilato e votato la riforma. Non si deve infatti dimenticare che la Costituzione entrata in vigore il 1 gennaio 1948 era il frutto di un anno e mezzo di lavoro di un’apposita Assemblea Costituente, che da un lato aveva appunto ricevuto l’esplicito mandato di scrivere la Carta, e dall’altro lato era stata eletta in maniera proporzionale in un’elezione alla quale partecipò la quasi totalità (l’89%) degli elettori aventi diritto.
La riforma costituzionale sottoposta a referendum è stata invece approvata, anzitutto, da un parlamento eletto in maniera maggioritaria nel 2013, con il cosiddetto Porcellum. Grazie al premio di maggioranza da esso attribuito, alla Camera la coalizione di centro-sinistra ha ottenuto 345 seggi su 630 con il 29,55% dei voti espressi, la coalizione di centro-destra 124 seggi con il 29,18% dei voti, e il Movimento Cinque Stelle 105 seggi con il 25,56% dei voti.
A quell’elezione ha partecipato solo il 75% degli aventi diritto. In realtà, dunque, sia il centro-sinistra che il centro-destra non rappresenta(va)no in Parlamento che il 22% circa degli elettori, e il Movimento Cinque Stelle il 19% circa: tutte piccole minoranze, cioè. Ma il centro-sinistra ha comunque ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, grazie appunto all’indegna legge maggioritaria.
Come se non bastasse, la Corte Costituzionale ha dichiarato in seguito incostituzionale l’abnorme premio di maggioranza da essa assegnato, pur non annullando le elezioni e non dichiarando decaduto il Parlamento eletto con la “legge truffa”. La decenza politica avrebbe comunque richiesto che un tale Parlamento si limitasse a gestire l’ordinaria amministrazione, invece di arrogarsi addirittura il diritto di cambiare una Costituzione approvata a suo tempo nei ben diversi modi descritti sopra, e per cambiare la quale l’elettorato non aveva dato alcun mandato esplicito.
Alla faccia della decenza, a volere e a fare la riforma è stato invece un Partito Democratico che rappresenta soltanto il 25% dei voti espressi, pari a circa il 18% degli aventi diritto (dunque, meno del Movimento Cinque Stelle), ma che ha alla Camera ben 297 seggi, ottenuti grazie a un premio di maggioranza che però veniva assegnato alle coalizioni, e non ai partiti! Peccato che quelle coalizioni ora non esistono più, perché si sono sfaldate nei tre anni di legislatura, con la conseguente transumanza di deputati e senatori da un gruppo parlamentare all’altro.
Per completare il quadro va ricordato che il governo è presieduto da Matteo Renzi, che non era candidato alle elezioni del 2013, e ha scalato Palazzo Chigi grazie alle sole primarie di fine 2013 per la segreteria del Partito Democratico: elezioni alle quali hanno preso parte meno di tre milioni di elettori, cioè solo circa il 6% dell’elettorato, meno di due milioni dei quali hanno votato per Renzi.
L’attuale presidente del Consiglio non è stato dunque eletto dal basso, dagli elettori, nonostante da decenni in Italia sia appunto in vigore un sistema elettorale maggioritario. Ed è stato invece nominato dall’alto, direttamente dal presidente della Repubblica, con un colpo di mano che si può vedere come un “colpo di Stato istituzionale”: probabilmente conforme alla lettera della Costituzione, ma sicuramente contrario allo spirito della legge elettorale vigente.
Passando al “come” della riforma costituzionale, essa è stata pensata e imposta in modo raffazzonato e autoritario proprio da un presidente del Consiglio di tal fatta. Il quale ha disatteso e tradito il suo ruolo di “capo dell’esecutivo”, esautorando e spodestando sistematicamente il Parlamento dal proprio ruolo di “organo legislativo”. Incurante del fatto che la divisione dei poteri richieda invece che a proporre e approvare le leggi debba essere il Parlamento, e che il governo debba appunto eseguirle e attuarle.
Con il comportamento tipico più del bullo del quartierino che del padre della Patria, Renzi ha fin dall’inizio cercato di imporre in aula non un progetto di Costituzione meditato ed equilibrato, con i pesi e contrappesi tipici della democrazia, ma una serie di pensate a girandola che sognava la sera e pretendeva che fossero approvate la mattina: ogni volta “mettendoci la faccia”, ogni volta perdendola regolarmente, ma non traendo mai alcuna volta le necessarie conseguenze politiche del mancato mantenimento delle proprie promesse da marinaio.
Invece di affidarsi agli esperti, dai costituzionalisti (che per lui hanno il grande torto di aver passato la vita a studiare appunto le costituzioni) ai teorici delle scienze sociali (dei quali probabilmente non ha mai nemmeno sentito parlare), ha preferito etichettarli tutti come “professoroni”, e opporre loro il motto di una delle sue peggiori ministre: il “porto in dote la mia inesperienza” della raccomandata veltroniana Marianna Madia, che come lui avrebbe più propriamente dovuto parlare di pura e semplice ignoranza, più che di inesperienza.
Le guasconate del presidente del Consiglio hanno ricevuto solo una debole e pavida opposizione da parte dei parlamentari del Partito Democratico, la maggioranza dei quali non ha avuto problemi a tradire il mandato che avevano ricevuto dagli elettori di centro-sinistra, sulla base di un programma elettorale contrapposto a quello di centro-destra imposto dal loro nuovo segretario. Ma il conseguente sfaldamento della coalizione di centro-sinistra ha reso necessario il procacciamento di voti all’esterno del partito, e per attuare il suo progetto autoritario Renzi si è dovuto rivolgere in soli due anni a ben tre altri guasconi: Silvio Berlusconi agli inizi, Angelino Alfano nel mezzo, e Denis Verdini alla fine.
La riforma costituzionale è dunque il parto di un “un uomo solo al comando”, non eletto e incompetente, che presiede un governo a maggioranze tanto variabili quanto il vento, che è sostenuto da manipoli di parlamentari voltagabbana, che sono stati eletti in maniera incostituzionale. A bocciare la riforma con un sonoro “no” basterebbe dunque la constatazione che “il modo ancor ci offende”: espressione, questa, di qualcuno che non a caso ci teneva a sottolineare di essere florentini natione, non moribus.
Ma oltre il “chi” e il “come”, a offendere è anche il “cosa” della riforma: cioè, il suo contenuto, indipendentemente da chi l’ha voluta e dal come è stata approvata. In particolare, la sostanziale abolizione del Senato costituisce l’altra faccia della medaglia dell’Italicum: un’ennesima “legge truffa” elettorale, che non a caso ricorda nel nome un altro grave disastro del nostro paese.
La “giustificazione” propagandistica per la riduzione del Parlamento alla sola Camera è duplice: nell’attuale sistema ci sarebbero due rami uguali, che raddoppiano i tempi di approvazione delle leggi. In realtà, il Senato non è mai stato uguale alla Camera, come dimostra appunto il fatto che le leggi rimbalzassero dall’uno all’altra: cambiavano infatti l’elettorato attivo, il sistema d’elezione e il numero degli eletti. E comunque il problema del nostro paese non è mai stato l’abnorme numero di leggi approvate, ma la loro infima qualità.
Il paese, semmai, avrebbe molto più bisogno del sano “meglio meno ma meglio” di Lenin, che non dello sciocco, e soprattutto falso, “meglio qualcosa che niente” di Renzi. Perché è sicuramente vero che per migliorare si debba fare qualcosa, ma non è affatto vero che qualunque cosa si faccia è un miglioramento.
Nella fattispecie, il progetto renziano si riduce in sostanza al tentativo di sostituire la “governabilità” alla “democrazia”. Renzi gioca sulle parole, al riguardo. In parte per indole, perché gli attivisti come lui prediligono il far presto al pensare bene. E in parte per furbizia, perché per gli industriali che lo sostengono (Marchionne, Elkann, De Benedetti, Farinetti, eccetera) è più facile trattare nell’ombra con un governo decisionista che risponde solo a loro, che non con uno democratico che risponda invece agli elettori.
Purtroppo per Renzi, ma soprattutto per gli italiani, governabilità e democrazia “insiem non puossi per la contraddizion che nol consente”. Non è un caso che la governabilità sia da sempre il cavallo di battaglia degli “uomini forti” che hanno già provato, con maggiore o minore successo, a disinnescare o silenziare la democrazia in Italia: da Mussolini a Craxi a Berlusconi.
E’ proprio perché la governabilità tende per sua natura a contrapporsi alla democrazia, che dico “no” alla riforma costituzionale di Renzi: perché non vorrei perdere in futuro il diritto democratico di dire “no” al bullo politico di turno. Ma se non ci saranno abbastanza altri elettori a dire “no”, quella sarà la nostra ultima occasione di dire “no”. Poi ci toccherà cantare “sì” tutti in coro a chi governerà col 20% dei voti, incurante del democratico dissenso dell’80%.
Ps. Allego qui una videointervista su questi stessi temi.

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