lunedì 10 ottobre 2016

I motivi del No che spingono a votare Si

Un gruppo di avvocati triestini ha selezionato gli undici motivi più forti per votare No al referendum del 4 dicembre, indicandoli in un loro appello pubblicato nei giorni scorsi. Riportiamo gli undici punti uno per uno, con un breve commento che si riassume così: se gli argomenti migliori contro la riforma costituzionale sono questi, vuol dire che quando si entra nel merito dei contenuti, i fautori del No sono davvero in difficoltà.
Riporto fedelmente gli undici argomenti di cui i 69 avvocati triestini (prima firmataria Elisa Adamic) «ritengono loro dovere civico di rendere edotti i cittadini», con un mio breve commento punto per punto.
La c.d. “Riforma Boschi”è una legge dal contenuto disomogeneo che sottende a tre complesse questioni di rilevanza costituzionale e che comprendono la modifica di ben 40 articoli della Carta che trattano di temi del tutto dissimili. A fronte di tale complessa articolazione l’elettore sarà chiamato ad esprimersi con un semplicistico SI o un NO […].
Se è per quello, gli articoli toccati dalla riforma sono 45. Ma di questi una parte consistente viene modificata solo per un coordinamento tecnico-formale in relazione alla nuova ripartizione dei compiti delle due Camere. Quanto alle «tre complesse questioni» che la riforma intende risolvere, esse sono strettamente legate tra loro da un intendimento politico-costituzionale unitario: quello di rendere più stabile il governo e più semplice e più veloce il processo decisionale. Al termine di ciascuna delle sei letture parlamentari, questo complesso di modifiche della Carta è stato approvato da Camera e Senato con un “sì” unitario sull’intera legge. Ora tocca agli elettori compiere (o rifiutare) lo stesso atto. Questo prevede l’articolo 138 della Costituzione, che rimane invariato e che è stato rigorosamente rispettato.
2 La c.d. “Riforma Boschi” è frutto di un’iniziativa governativa e non di iniziativa parlamentare come invece avrebbe dovuto essere secondo il nostro sistema costituzionale e secondo gli insegnamenti dei nostri padri costituenti, giacché la Costituzione rappresenta la legge fondamentale dello Stato e non un atto di parte, ovvero solo di quelle parti che appoggiano un governo […].
I firmatari di questo documento dimenticano che, prima del 2014, negli ultimi quarant’anni il Parlamento italiano si era cimentato per almeno otto volte su questa riforma, senza cavare un ragno dal buco. Constatato questo insuccesso, per superare una situazione di paralisi istituzionale gravissima sfociata nella rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica e in un suo appello drammatico nel discorso di insediamento, nel 2013 il Governo Letta e nel 2014 il Governo Renzi hanno posto la riforma stessa al centro del programma sul quale hanno chiesto e ottenuto la fiducia del Parlamento. E lo hanno fatto entrambi cercando in tutti i modi di coinvolgere nella elaborazione e approvazione della riforma anche la parte più ampia possibile dell’opposizione. Non è comunque certo la prima volta, nella storia della Repubblica, anzi è quasi sempre avvenuto che fosse il Governo ad assumere l’iniziativa legislativa delle modifiche della Costituzione, via via che esse si sono rese necessarie.
3 La c.d. “Riforma Boschi” (approvata dalla Camera con 361 voti su 630!) è stata decisa da un Parlamento sul quale pesano fondati dubbi di legittimazione, a seguito della nota sentenza della Corte Costituzionale, n. 1 dd. 13 gennaio 2014 con la quale è stata cassata la legge elettorale previgente (c.d. Porcellum) e cioè con parlamentari “nominati”, insicuri di essere rieletti e perciò esposti ad abituali cambi di casacca […].
A) 361 voti costituiscono il 57,3 per cento dei voti degli aventi diritto; la Costituzione ne richiederebbe, per la validità dell’atto legislativo, il 50 per cento più uno; dove sta dunque l’irregolarità? B) La stessa sentenza della Corte costituzionale n. 1/2014 ha chiarito non soltanto la piena legittimazione del Parlamento in carica (non avendo l’abroga – zione parziale della legge elettorale effetti giuridici retroattivi), ma anche – richiamando sentenze precedenti della medesima Corte in questo senso –il preciso dovere del Parlamento stesso, nella sua attuale composizione, di provvedere agli adeguamenti necessari del sistema istituzionale.
La c.d. “Riforma Boschi”viola il diritto di elettorato attivo come forma di esercizio della sovranità popolare (art. 1, comma 2, Costituzione), giacché la Costituzione garantisce l’elettività diretta delle assemblee legislative, e non prevede affatto l’interposizione di elezioni di secondo grado e/o indirette come disposte dalla riforma tramite i c.d. “grandi elettori regionali”. Per tacere del fatto che la nomina a senatore dei sindaci (sulla quale la riforma nulla dice) collide con il principio di ragionevolezza, posto che non è dato di capire come sia possibile adempiere con “disciplina ed onore”(art. 54 Cost.) le due assorbenti funzioni in contemporanea.
A) La norma costituzionale che prevede l’elezione a suffragio universale di entrambe le Camere è proprio una di quelle che vengono modificate: è evidente dunque che essa non può essere invocata per invalidare la norma che la s o stituis ce. B) Gli stessi firmatari dimenticano che già oggi i rappresentanti delle Regioni vengono a Roma almeno un paio di volte al mese per una sessione della Conferenza Stato-Regioni: organo sostanzialmente costituzionale ma non previsto dalla vecchia Costituzione, istituito nel 1988 per l’indispensabile coordinamento tra attività legislativa e amministrativa delle Regioni con quella del Governo centrale. Con la riforma, questa funzione di coordinamento verrà svolta dal Senato per la parte legislativa, con maggiori garanzie di chiarezza istituzionale e di trasparenza. E ovviamente con sessioni di lavoro compatibili con gli impegni dei senatori nelle regioni d’origi – ne,e non riunendosi in permanenza come fa oggi, dovendo duplicare l’intero lavoro della Camera dei Deputati.
5 La c.d. “riforma Boschi”, in nome di una pretesa semplificazione dell’iter legislativo, aumenta i procedimenti legislativi di approvazione delle leggi dagli attuali tre (procedimento normale, conversione decreti legge, procedimento di riforma costituzionale) in otto (cfr. artt. 70, 71, 72, 73, e 77 Cost.) con conseguente fondato rischi di complicare in pejus la tempistica dei provvedimenti.
Non è così: i procedimenti legislativi previsti sono due e solo due. Per uno dei due –quello applicabile all’incirca nel 95 per cento dei casi – il procedimento si semplifica drasticamente: la legge sarà approvata dalla sola Camera dei Deputati, con riesame da parte della stessa Camera nel solo caso in cui il Senato ritenga, entro un termine molto ridotto, di segnalare errori o necessità di integrazioni. L’altro procedimento – applicabile soltanto alle leggi costituzionali, a quelle riguardanti le autonomie locali, a quelle riguardanti la ratifica di trattati internazionali e l’attuazione di direttive europee, e a poche altre – resta sostanzialmente identico all’attuale. Determina soltanto uno sveltimento del primo procedimento la possibilità che viene data al Governo – p er consentire una riduzione drastica dei casi in cui viene posta la fiducia – di chiedere alla Camera di decidere entro un termine breve, che non potrà comunque essere inferiore a 70 giorni. Viene, per converso, regolato in modo più restrittivo il ricorso del Governo al decreto -legge. Il documento prosegue denunciando i sei ulteriori “p eccati”della riforma, che riporto qui testualmente.
6 La violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza a fronte della macroscopica differenza tra il numero dei deputati (630) con quello dei senatorisindaci e/o consiglieri regionali (95).
Questo rilievo è davvero sconcertante: proprio perché si supera il bicameralismo perfetto, le due Camere vengono investite di funzioni molto diverse, anche da un punto di vista soltanto quantitativo. Il nuovo Senato sarà chiamato a rappresentare venti Regioni e 8000 Comuni in relazione alle loro specifiche funzioni, mentre la Camera continuerà a rappresentare 60 milioni di italiani in relazione alla totalità dei loro interessi. Sta di fatto che nella RFT la sproporzione è maggiore: 630 membri del Bundestag e 69 quelli del Bundesrat (che corrisponde, nel nuovo regime, al nostro nuovo Senato). Negli U.S.A. i membri della Camera sono 450, quelli del Senato 100.
7 L’inspiegabile allargamento ai senatori-sindaci e/o consiglieri regionali del privilegio dell’immunità.
Quando sia ben chiaro che l’autorizzazione a procedere non riguarda l’imputazione penale e lo svolgimento del relativo processo, bensì soltanto l’arresto, sarebbe inspiegabile non l’estensione ai senatori di questa protezione costituzionale, ma la loro esclusione da essa. L’arresto altera la composizione dell’organo costituzionale: il principio dell’in – dipendenza reciproca fra legislativo e giudiziario giustifica che al Senato si attribuisca un controllo sull’arresto di un proprio membro da parte di un qualsiasi magis trato.
8 Il travaso inorganico di competenze legislative dalle Regioni ordinarie allo Stato per una cinquantina di materie affastellate in 21 lettere dalla a) alla z), con rischio di un perenne conflitto di attribuzioni.
L’eliminazione delle aree di competenza legislativa e amministrativa concorrente tra Regioni e Stato ha, evidentemente, l’effetto di ridurre quel conflitto. Non può certo aumentarlo. La c.d. clausola di unità nazionale contenuta nel nuovo articolo 117, comma 4, funge comunque da norma di chiusura, tagliando la testa al toro.
9 L’inspiegabile e illogico riparto dei numeri dei senatori in riferimento alle singole regioni (p. es.: 14 senatori alla Lombardia e 2 al Friuli Venezia Giulia nella quale le minoranze linguistiche rischiano di rimanere fuori gioco: art. 6 Cost.).
Negli U.S.A. ci sono Stati con decine di milioni di abitanti, come la California o il Texas, che eleggono al Senato lo stesso numero di senatori –due –del Rhode Island, il quale ha solo un milione di abitanti. Analoghe sproporzioni rispetto alla popolazione dei Länder si registrano nel Bundesrat tedesco. Esse sono coessenziali al concetto di rappresentanza delle autonomie locali (affidata al nuovo Senato), come concetto diverso da quello di rappresentanza del popolo sovrano (che resta affidata alla Camera).
10 L’aumento da 50.000 a 150.000 firme per l’iniziativa legislativa popolare.
I firmatari del documento dimenticano (?) di menzionare l’altra parte della nuova norma costituzionale: quella che obbliga la Camera aesaminare la proposta di legge di iniziativa popolare entro un termine ragionevole, che deve essere fissato nel regolamento della stessa Camera (obbligo oggi inesistente, col risultato che i disegni di legge di iniziativa popolare finiscono regolarmente in un cassetto e ivi restano sena speranza). L’iniziativa legislativa popolare non viene dunque indebolita, ma al contrario potenziata: perché per un verso la si disinflaziona, per altro verso le si attribuisce il potere di obbligare il Parlamento a pronunciar si.
11 La contraddittoria compresenza di due forme di referendum abrogativo in base al numero dei proponenti e dei votanti, con la trasparente mira di seppellire definitivamente tale guarentigia costituzionale.
Anche per questo aspetto la riforma – se confermata dal voto referendario – produce l’effetto esattamente opposto a quello denunciato dai firmatari del documento triestino. La nuova disposizione, infatti, lascia intatta la possibilità di indizione del referendum abrogativo richiesto da 500.000 elettori, aggiungendo a questa una possibilità ulteriore, costituita dal referendum abrogativo richiesto da 800.000 elettori, favorendo l’iniziativa referendaria in questo secondo caso, col ridurre il quorum dei voti necessario per la validità della consultazione: in questo caso non è necessario il 50 per cento degli aventi diritto al voto, ma soltanto il 50 per cento dei votanti alle ultime elezioni politiche.
Lungi dal “seppellire tale guarentigia costituzionale”, dunque, la riforma la rafforza. Il documento dei 69 si conclude con la denuncia degli effetti antidemocratici che si produrrebbero con la combinazione della riforma costituzionale con quella elettorale. Infine, ultimo ma non ultimo, il potenziale esplosivo che rischia di sviluppare la “Riforma Boschi” se valutata in uno con la nuova legge elettorale (il c.d Italicum).
Il connubio legislativo (Riforma Boschi – Italicum) rischia di far sì che nella scontata ipotesi di ballottaggio, il potere si concentri tutto nelle mani della sola forza politica che raccolga meno del 40% dei votanti e cioè, atteso il dilagante fenomeno dell’astensione, che rappresenti solo il 25% del corpo elettorale. Non è così: i firmatari del documento non considerano che proprio il ballottaggio ha la funzione di costringere la forza politica che non abbia superato il 40 per cento dei voti (nel primo turno) a conquistare almeno il 50 per cento al secondo turno. Stupisce che i detrattori dell’Italicum continuino a proporre questo argomento assurdo, per accogliere il quale occorrerebbe considerare antidemocratico il sistema elettorale francese e occorrerebbe dimenticare gli effetti eccellenti prodotti dalla nostra legge elettorale per i consigli comunali, anch’essa basata sul ballottaggio.
Colpisce che ben 69 seri professionisti del diritto abbiano firmato questo documento, evidentemente senza prendere cognizione diretta del contenuto della riforma: altrimenti non avrebbero potuto non vedere le gravi omissioni e gli errori evidenti della lettura che nel documento ne viene proposta. Oportet, comunque, ut scandala eveniant. Se nessuno degli 11 argomenti escogitati da questi 69 esìmi giuristi a sostegno del NO regge a una verifica immediata, questo costituisce una conferma non trascurabile delle buone ragioni del SÌ.

Pietro Ichino, 9 Ottobre 2016, l'Unità

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