venerdì 4 gennaio 2013

Navigare a vista

La scuola statale italiana deve riprendere un ruolo adeguato al patrimonio storico culturale del nostro Paese e  all’istruzione di nuove generazioni intellettualmente curiose e appassionate ai saperi. A tale scopo non ha bisogno di ricette frettolose o colpi di magia, ma di politiche partecipate, di un disegno complessivo e di una pianificazione nel lungo periodo, sostenute da adeguati investimenti

 Chi guarda dall’esterno la scuola statale italiana dipinge spesso scenari disastrosi di inefficienza e inefficacia dell’insegnamento. “L’Italia ha un elevato tasso di abbandono scolastico precoce, un livello di performance scolastica più basso rispetto alla media dei paesi Ocse e un numero di laureati lontano dagli obiettivi fissati dall’Unione europea”, si legge nel documento dedicato alla scuola del manifesto programmatico di Mario Monti.  In effetti l’Italia non esce bene dalla dodicesima edizione del rapporto annuale dell’Ocse Education at a Glance (EAG), che pone a confronto i sistemi educativi dei 34 Paesi membri dell’Organizzazione.

 Il quadro negativo dei giudizi, in generale peggiora quando si parla della scuola secondaria di 1° grado, ex scuola media. Non era così quindici/venti anni fa: la scuola pubblica italiana primaria e secondaria erano spesso citate all’estero come riferimenti positivi; quindi è lecito chiedersi come abbia potuto accadere tutto ciò, che cosa in realtà non ha funzionato, innescando il degrado graduale, ma inesorabile dell’istruzione pubblica nel nostro Paese.

Sembra d’altro canto “stravagante”, per usare un termine ironico caro all’ex premier Monti, che un Governo come il suo abbia voluto segnare una discontinuità in tutti i campi rispetto al precedente; invece, quanto all’istruzione statale, in modo molto politico e pochissimo tecnico,  abbia elogiato il percorso di riforme targato Gelmini, proponendo una continuità. La filosofia, lo ricordiamo, era quella tremontiana di considerare l’istruzione statale un costo, non un investimento.

Eppure, facendo riferimento allo stesso rapporto Ocse, la spesa pubblica per l’istruzione ammonta al 4,9% del Pil, contro una media Ocse del 6,2%, percentuale che colloca l’Italia al 31° posto su 37. Ancora peggiore è il dato che riguarda la percentuale della spesa per l’istruzione sul totale della spesa pubblica: solo il 9% contro una media Ocse del 13% (31° posto su 32). Cinque anni fa le istituzioni scolastiche erano 10.759. Il salasso della legge 111 ha prodotto la chiusura di 2.667 istituzioni scolastiche, pari ad un decremento del 25%.  Se un malato peggiora, forse la terapia non era proprio quella giusta.

E’ passato mezzo secolo da quando, nel 1962, il Parlamento italiano approvò la riforma dell’ordinamento scolastico che introdusse la “scuola media unica”, superando il precedente ordinamento “a canne d’organo” con sbocchi diversi per diversi destini prematuri: avviamento e commerciali per chi doveva andare a lavorare presto; “medie” per chi proseguiva ….

La più importante riforma scolastica del secondo dopoguerra  fu varata sotto il ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui, amico e stretto collaboratore del Presidente del Consiglio Aldo Moro. La finalità era quella di recepire gli orientamenti della Costituzione della Repubblica e portare gli ordinamenti scolastici italiani, ancora elitari e classisti, a un rinnovamento in senso democratico e sociale.
Quando, nel 2012, la scuola media unica compie 50 anni,  riceve molte più critiche che elogi di ogni provenienza e parte politica. La responsabile scuola della segreteria PD, Francesca Puglisi, propone l’eliminazione dell’esame di terza  media e  lo spostamento dell’esame alla fine del secondo anno di scuola secondaria superiore media.
D’altro canto i 12 milioni previsti a carico del bilancio del Miur  per il servizio educativo sperimentale per bambini di due-tre anni,  costituito nel 2007, non ci sono più, lasciando Regioni e Comuni senza i previsti finanziamenti.
In ottobre infine il ministro Profumo dichiara che entro cinque anni tutti gli  studenti avranno a disposizione un tablet. Da subito ogni docente avrà un proprio tablet.  Secondo un calcolo effettuato da Tuttoscuola sulla base dei dati del Miur, gli studenti di scuola media sono 1.690.000 e quelli delle superiori 2.570.000, per un totale di 4.260.000 potenziali destinatari di tablet. Poi ci sono le classi: 190mila per i due settori. Supponendo che il tablet di classe serva per tutti gli insegnanti, occorrerebbe una dotazione minima di 4.450.000 tablet. Sul mercato un tablet ha costi che oscillano tra i 100 e i 600 euro e, quindi, il costo complessivo potrebbe oscillare tra mezzo miliardo e tre miliardi. Acquistando una partita di buoni tablet scontati, il ministero dell'Istruzione potrebbe spendere circa un miliardo.
La digitalizzazione del sistema viene presentata come la bacchetta magica, ma chi vive la scuola ha da più parti sottolineato che introdurre le tecnologie nei processi di apprendimento non è di per sé una forma di innovazione perché uno strumento nuovo non porta di per sé rinnovamento.
Accompagnate da scelte metodologiche e strategiche significative da parte degli insegnanti, le nuove tecnologie possono contribuire a rinnovare la didattica.  Come tutti gli strumenti, diventano inutili, se non addirittura dannosi, in assenza di un adeguato coinvolgimento sulla formazione riguardo ai processi di apprendimento. Potrebbero condurre a nuove forme di analfabetismo di ritorno, come già successo con la semplice abolizione dei libri di testo, sostituiti da schede operative. La predisposizione di piani formativi richiede  però investimenti di tempo e denaro.

Il tutto richiede politiche organiche e progettuali, non navigare a vista; richiede essere veramente al corrente del recente passato e del presente dell’istruzione statale, non da tutti ritenuta “bene comune” dei cittadini italiani.

Franca Marchesi
                                                                                                            

2 commenti:

  1. Certo Franca che il quadro che hai descritto è proprio desolante. Se a ogni legislatura ci si inventa nuove riforme (tese quasi sempre a massacrare la scuola pubblica invece che aiutarla a crescere) i dati che hai riportato continueranno a peggiorare. Ecco perchè un'idea come quella dei tablet, in questo marasma fatto di tagli e spostamenti dei finanziamenti verso il privato, sembra buona, ottima, quasi la soluzione di tutti i mali. E invece non è così, alla scuola serve ben altro.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Di desolante, Andrea, ci sono solo le cifre, punto di arrivo di un processo che chi era dentro la scuola avvertiva e denunciava da più di un decennio, mentre gli organismi collegiali spesso si limitavano a ratificare le politiche delle dirigenze e delle amministrazioni locali, in nome di malintese equidistanze dai partiti. Oggi possiamo forse sperare che un certo ritorno alla partecipazione democratica riconduca gli organismi collegiali al loro ruolo e che la scuola pubblica ritorni ad essere un laboratorio di formazione e progettazione partecipata. Una scuola dove un'offerta formativa uguale per tutti e per tutte le diversità è amica della qualità e del merito, non può volere la continuità con politiche che hanno penalizzato sistematicamente l'istruzione pubblica, cancellandola persino dall'intitolazione del ministero competente e partendo dal ritorno ai grembiulini e al "voto".

      Elimina

Questo blog non è moderato. Si raccomanda perciò un'adozione civile di modi e di toni.