mercoledì 9 ottobre 2013

Gli italiani oggi secondo l'OCSE


Già l’antropologo degli italiani Carlo Tullio-Altan (sì il padre del vignettista) ci aveva ben studiati. Siamo un Paese socio-culturalmente arretrato che mangia bene e veste Armani, ma che a malapena sa leggere (non ne parliamo di interpretare un testo complesso, vedi le sempre attuali analisi di Tullio de Mauro)  e ancora peggio sa far di conto. Un Paese di analfabeti e di analfabeti di ritorno. Di laureati che si rifiutano di leggere anche il quotidiano che non sia sportivo. I dati OCSE in uscita questi giorni ci colgono in tutta la nostra insipienza, letteralmente.
Quali le ragioni? I ritardi sono molteplici e annosi, ma  l’ultimo ventennio così futile e svaporato  ha aggiunto un aggravio in termini di perdita di skills needed for the 21st century per dirla nel linguaggio del rapporto OCSE: di competenze per affrontare il secolo e millennio volgenti.

Ma i nostri ritardi affondano nella lunga durata. Non si capirà nulla del nostro Paese se si pensa che esso sia  il diretto discendente dell’antica civiltà romana, dell’età dei Comuni e della grande civiltà rinascimentale. E’ vero ciò quanto può esser vero che gli odierni irakeni siano i diretti discendenti della antica civiltà dei sumeri o dei babilonesi, o quanto i greci attuali i discendenti diretti di Pericle. Nei fatti la storia stabilisce delle fratture nette anche nei fenomeni cosiddetti di “lunga durata”. Noi siamo i figli della civiltà contratta e arretrata della Controrifoma (non a caso il romanzo che ci descrive ancora meglio è “I promessi sposi”). Spenta la vivacità culturale comunale e rinascimentale, la lingua italiana ridotta a un dialetto europeo,  i fiumi ormai impaludati alla foce e immersi nella malaria, il commercio, l’industria e lo sviluppo economico bloccati per oltre tre secoli, la plebe immobilizzata nella credulità religiosa del tipo magico-sacramentale del cattolicesimo rituale ed esteriore, analfabeta e socio-culturalmente arretrata, preda del clero e delle credenze più stravaganti… tutto ciò ha dato luogo all’Italia di oggi.
Noi siamo i figli di quella Italia lì. Dagli anni Sessanta del secolo scorso ci siamo dati, è vero, un bel  colpo di reni  verso il benessere e l’agio, ma quell’Italia di ieri è ancora attiva e operante in mezzo a noi. Siamo un Paese sviluppato ma non progredito, prevalentemente immerso nella cultura orale e nella superstizione (milioni di italiani frequentano i maghi e regolano la propria vita secondo l’oroscopo). Ma un popolo allegro, questo sì: se diciamo che facciamo la rivoluzione i primi a non crederci siamo noi. E qui nessuno sa dire se fortunatamente o sfortunatamente. E invece abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale, o almeno di una riforma intellettuale e morale. Come sempre.
La Controriforma ci darà don Abbondio e don Ferrante ( i curati vigliacchetti e i pedanti vanagloriosi) non Galilei e Torricelli che furono  i frutti maturi del Rinascimento non certo della Controriforma. Il nostro pensiero per lungo tempo è stato ed è ancora oggi   di tipo magico-sacramentale, proprio noi il Paese che ha messo al mondo con gli scienziati del Seicento e con Vilfredo Pareto poi,  il metodo e il pensiero logico-sperimentale. Quando ci siamo dati da fare mirabilmente e con straordinaria intelligenza abbiamo chiamato tutto ciò il “miracolo” economico, non lavoro duro, ma una specie di gioco di prestigio teurgico, riflesso di una cultura religiosa che ci è entrata nelle ossa e nel vocabolario.
Il rifiuto che ha perdurato fino al ’900 della cultura scritta a favore di quella orale ha fatto sì che  la musica strumentale, solo per  fare un esempio, il prodotto più alto della nostra civiltà musicale, venisse totalmente annullata da quella operistica (altro nostro vanto, ovvio, ma tutt’altra cosa rispetto a quella strumentale). Perdiamo nel Settecento anche  l’appuntamento con il romanzo (altrove Lesage, Prevost, Swift, Richardson, da noi gli abatini Casti, Bettinelli e Metastasio). La prevalenza della parola sulla scrittura per secoli  ha, nei percorsi  sinuosi della “lunga durata”, recato come risultato ultimo e più appariscente il trionfo della cultura televisiva, dei festival canori, ma anche  del chiacchiericcio sui telefonini, del karaoke. Parliamo e non leggiamo, e siamo pronti a prestar fede a tutti gli imbonitori di questo mondo.
Per il nostro vitalismo gorgheggiante come quello del Barbiere di Siviglia (Ah, che bel vivere, che bel piacere…) leggere resta  ancora una piccola morte.da Lettera43
Già l’antropologo degli italiani Carlo Tullio-Altan (sì il padre del vignettista) ci aveva ben studiati. Siamo un Paese socio-culturalmente arretrato che mangia bene e veste Armani, ma che a malapena sa leggere (non ne parliamo di interpretare un testo complesso, vedi le sempre attuali analisi di Tullio de Mauro)  e ancora peggio sa far di conto. Un Paese di analfabeti e di analfabeti di ritorno. Di laureati che si rifiutano di leggere anche il quotidiano che non sia sportivo. I dati OCSE in uscita questi giorni ci colgono in tutta la nostra insipienza, letteralmente.
Quali le ragioni? I ritardi sono molteplici e annosi, ma  l’ultimo ventennio così futile e svaporato  ha aggiunto un aggravio in termini di perdita di skills needed for the 21st century per dirla nel linguaggio del rapporto OCSE: di competenze per affrontare il secolo e millennio volgenti.
Ma i nostri ritardi affondano nella lunga durata. Non si capirà nulla del nostro Paese se si pensa che esso sia  il diretto discendente dell’antica civiltà romana, dell’età dei Comuni e della grande civiltà rinascimentale. E’ vero ciò quanto può esser vero che gli odierni irakeni siano i diretti discendenti della antica civiltà dei sumeri o dei babilonesi, o quanto i greci attuali i discendenti diretti di Pericle. Nei fatti la storia stabilisce delle fratture nette anche nei fenomeni cosiddetti di “lunga durata”. Noi siamo i figli della civiltà contratta e arretrata della Controrifoma (non a caso il romanzo che ci descrive ancora meglio è “I promessi sposi”). Spenta la vivacità culturale comunale e rinascimentale, la lingua italiana ridotta a un dialetto europeo,  i fiumi ormai impaludati alla foce e immersi nella malaria, il commercio, l’industria e lo sviluppo economico bloccati per oltre tre secoli, la plebe immobilizzata nella credulità religiosa del tipo magico-sacramentale del cattolicesimo rituale ed esteriore, analfabeta e socio-culturalmente arretrata, preda del clero e delle credenze più stravaganti… tutto ciò ha dato luogo all’Italia di oggi.
Noi siamo i figli di quella Italia lì. Dagli anni Sessanta del secolo scorso ci siamo dati, è vero, un bel  colpo di reni  verso il benessere e l’agio, ma quell’Italia di ieri è ancora attiva e operante in mezzo a noi. Siamo un Paese sviluppato ma non progredito, prevalentemente immerso nella cultura orale e nella superstizione (milioni di italiani frequentano i maghi e regolano la propria vita secondo l’oroscopo). Ma un popolo allegro, questo sì: se diciamo che facciamo la rivoluzione i primi a non crederci siamo noi. E qui nessuno sa dire se fortunatamente o sfortunatamente. E invece abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale, o almeno di una riforma intellettuale e morale. Come sempre.
La Controriforma ci darà don Abbondio e don Ferrante ( i curati vigliacchetti e i pedanti vanagloriosi) non Galilei e Torricelli che furono  i frutti maturi del Rinascimento non certo della Controriforma. Il nostro pensiero per lungo tempo è stato ed è ancora oggi   di tipo magico-sacramentale, proprio noi il Paese che ha messo al mondo con gli scienziati del Seicento e con Vilfredo Pareto poi,  il metodo e il pensiero logico-sperimentale. Quando ci siamo dati da fare mirabilmente e con straordinaria intelligenza abbiamo chiamato tutto ciò il “miracolo” economico, non lavoro duro, ma una specie di gioco di prestigio teurgico, riflesso di una cultura religiosa che ci è entrata nelle ossa e nel vocabolario.
Il rifiuto che ha perdurato fino al ’900 della cultura scritta a favore di quella orale ha fatto sì che  la musica strumentale, solo per  fare un esempio, il prodotto più alto della nostra civiltà musicale, venisse totalmente annullata da quella operistica (altro nostro vanto, ovvio, ma tutt’altra cosa rispetto a quella strumentale). Perdiamo nel Settecento anche  l’appuntamento con il romanzo (altrove Lesage, Prevost, Swift, Richardson, da noi gli abatini Casti, Bettinelli e Metastasio). La prevalenza della parola sulla scrittura per secoli  ha, nei percorsi  sinuosi della “lunga durata”, recato come risultato ultimo e più appariscente il trionfo della cultura televisiva, dei festival canori, ma anche  del chiacchiericcio sui telefonini, del karaoke. Parliamo e non leggiamo, e siamo pronti a prestar fede a tutti gli imbonitori di questo mondo.
Per il nostro vitalismo gorgheggiante come quello del Barbiere di Siviglia (Ah, che bel vivere, che bel piacere…) leggere resta  ancora una piccola morte.

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