Pubblico un intervento non proprio da blog. È una lunga meditazione su come viene percepita, o è stata percepita nel passato, l'istituzione parlamentare nel nostro Paese e sul rapporto che s'è stabilito tra essa e l'opinione comune dei connazionali. Spero che il periodo di ferie estive e il conseguente maggior tempo libero propizi la lettura di questa "articolessa".
L'istituzione parlamentare non ha mai suscitato grandi entusiasmi nel
nostro Paese. Cosa mai si può concludere in un luogo dove si parla?
In un Paese individualista, vitalista,
anarchico, in cui si dice che “le parole
sono femmine e i fatti sono
maschi” ̶ e i
numeri delle partite IVA deliziano molto più delle parole scritte e incartate in quegli involucri sconosciuti ai
più che sono i libri ̶ , il Parlamento
inevitabilmente è stato visto come il
luogo in cui si disputano insensate
logomachie (guerra di parole), dove si celebrano incomprensibili rituali e s'attorcigliano bizantinismi
procedurali. Che la democrazia rappresentativa sia questo: una formalizzazione, una
ritualizzazione e una miniaturizzazione del
grande gioco sociale, agli italiani è sembrato per lungo tempo una bizzarria
anglosassone, come il pudding o il cricket. Che si potessero rappresentare
le lotte sociali e la stessa vita nazionale in un luogo ristretto, in una cavea
da teatro greco, con attori deputati disposti a Centro, a Destra e a Sinistra,
è sembrato ai nostri connazionali una
stranezza di quei francesi della Convenzione ancora irretiti dalla teatralità maestosa del grand siècle.
Del resto in Italia il costituzionalismo venne benevolmente octroyé,
concesso dai, più che strappato ai, re,
e il parlamentarismo si instaurò come una tacita prassi, tant'è che di fronte alle prime crisi (atmosfera morale e politica
dalla quale non sembra siamo mai usciti) si urlò presto Torniamo allo Statuto!, quella
carta costituzionale che non prevedeva un controllo delle Camere
sugli atti del Governo. L'Istituzione subì in seguito l'assalto mortale di chi già voleva trasformarla in un bivacco
di manipoli e, in seguito, la carica dileggiatrice e devastante del
qualunquismo e delle maggioranze silenziose, eventi che
mostravano in chiaro agli italiani certi
loro oscuri e tenaci pensieri sulla politica e i politici.
Istituzione complessa
e delicata, che si attaglia forse a
popolazioni evolute, induceva Stendhal ̶
quando gli italiani erano ancora
politicamente immaturi e appena al risveglio dal letargo dei secoli bui dal
quale venivano scossi dalle armate napoleoniche ̶ a
interrogarsi ripetutamente in Roma,
Napoli, Firenze, se essi fossero davvero pronti per le Deux Chambres, questa finezza politica. E quando finalmente quei
noiosi dei piemontesi estesero all'intero Paese questa loro noiosissima
Istituzione, ci fu a partire dal secondo
Ottocento tutto un levarsi di lamenti e di rivolte ideali e di romanzi ̶ caso
raro al mondo il genere del romanzo parlamentare ̶ contro
la mal compresa e odiata Istituzione.
Qualche decennio dopo che
il messo sabaudo Chevalley veniva rimandato indietro nella fredda Torino dal diniego gattopardesco di partecipare al
Parlamento subalpino, Pirandello faceva mormorare al giovane Lando ne I vecchi e i giovani: « Lui, a
Montecitorio, in quel momento? Meglio affogarsi in una fogna!» e De Roberto, certo uno scrittore intelligente
e incompreso, vi ambientò tutto un romanzo a Montecitorio, L'Imperio,
dove non mancò di indugiare ironicamente sulle liturgie parlamentari delle
interrogazioni «sull'ubicazione d'una fermata di una ferrovia di Sardegna», «sopra
uno sciopero di sigaraie di una manifattura di tabacchi del Veneto», «sui danni
prodotti da un'alluvione in Calabria», o «sull'applicazione di un comma d'un
articolo d'un regolamento».
Di fronte al permanente sospetto della popolazione
verso i politici, intesi tout court
come parlamentari, dunque politicanti parolai, la classe politica in evidente
difficoltà e in cerca di facili consensi, cominciò, a partire dagli anni '70 del secolo scorso, a candidare al
Parlamento le più svariate categorie di cittadini di successo, cantanti,
attori, calciatori, presentatori televisivi, attricette porno, avvocati di grido e in
ultimo industriali e scrittori, i quali salvo qualche eccezione si unirono al
coro dei lamenti, non appena scoprirono che in quel luogo si dettavano norme
sui lavoratori transfrontalieri o i molluschi lamelliformi!
Ancora oggi non fa parte del comune sentire che la
politica è un ramo specialistico delle professioni
intellettuali, un'attività dannatamente tecnica, e che for se bisogna farla
fare ai politici di professione o a chi
la elegge come professione, e che si deve pertanto assegnare anche agli odiati
politici il riconoscimento sociale e
l’adeguata remunerazione che si concede agli
avvocati penalisti, agli psicoanalisti, agli attori, ai cantautori, a tutti
coloro che vivono di parole senza vergognarsi.
Attività altamente
tecnica è la politica
e ad alto contenuto professionale,
dove non ci si improvvisa, ed essa può occupare degnamente una intera esistenza (così fu per Pietro Nenni o Alcide De Gasperi), ed è tanto assorbente,
anche in termini di sfrido di energie personali ̶ se fatta responsabilmente ̶ che non è pensabile di poterla dismettere senza un’adeguata copertura di previdenza sociale. Nella
Prima Repubblica, tanto biasimata quanto
tragicamente disintegrata senza
un adeguato rimpiazzo, era normale che
si iniziasse l’attività politica dagli scranni dei Comuni, avvezzandosi alla
dialettica e alla pratica politica ̶ che
altro non è che una difficile coniugazione, mediazione, soppesazione tra ideali e interessi (sì interessi)
̶ a partire dai canali scolmatori e le acque reflue, per poi
passare alla Provincia, alla Regione e
quindi al Parlamento nazionale. Si
progrediva in politica
secondo un percorso ascendente (si saliva, non si scendeva in politica) che si richiamava all’antica Roma e
che trovava una denominazione ovvia e
condivisa: cursus honorum.
E oggi, nei giorni in cui il vento dell’antipolitica
soffia nei blog e nei
social network come la bora di questo glaciale inverno del nostro scontento e i
sondaggi danno la classe politica ai minimi storici in termini di fiducia,
occorre ribadirlo con forza anche se ci si fa
ipso facto un esercito di nemici:
signori, se si vuole vivere associati
non è possibile fare a meno della politica ̶ è
così più o meno dai tempi del neolitico ̶ e dunque non si può fare a meno dei politici. Quindi
non delegate al mugugno il vostro (ri)sentimento politico, e se
non vi va bene quella in corso, “ascendete” anche voi in
politica, perché essa, come dice il papà sindacalista
sul letto di morte nel bel film di Tornatore Baaria, « è bella».
Singolare è poi l’idea di ridurre i politici a pane e acqua o di sottoporli a una rotazione continua (due o tre mandati) appellandosi a modelli esteri («facciamo come in America»). Tanto più che tutti quei movimenti ferocemente antipolitici, i leghisti prima, i grillini dopo o gli stessi radicali, quelli che urlano contro il regime con molte legislature alle spalle, si trovano prima o poi davanti all’impasse di dover accettare l’odiato principio che l’attività politica può essere un degno mestiere (che io non farei mai, perché ne pavento il disumano impegno e il sequestro dagli usuali affetti e dalla vita pigra del lettore di libri). Tant’è vero che non è difficile contare molti politici leghisti che hanno abbandonato professioni e fabbrichette per seguire il loro demone politico: ed erano quelli che più urlavano contro la cadrega o agitavano cappi in Parlamento. Ma nessuno li può rimproverare per una pratica della politica così protratta nel tempo da assurgere a professione: se vengono eletti e rieletti: perché no? Quale vergogna ci può essere nel rappresentare il proprio popolo ̶ nel centrodestra, di recente, è raccomandato un brivido di compiacimento nel pronunciare questa parola ̶ per più mandati?
Singolare è poi l’idea di ridurre i politici a pane e acqua o di sottoporli a una rotazione continua (due o tre mandati) appellandosi a modelli esteri («facciamo come in America»). Tanto più che tutti quei movimenti ferocemente antipolitici, i leghisti prima, i grillini dopo o gli stessi radicali, quelli che urlano contro il regime con molte legislature alle spalle, si trovano prima o poi davanti all’impasse di dover accettare l’odiato principio che l’attività politica può essere un degno mestiere (che io non farei mai, perché ne pavento il disumano impegno e il sequestro dagli usuali affetti e dalla vita pigra del lettore di libri). Tant’è vero che non è difficile contare molti politici leghisti che hanno abbandonato professioni e fabbrichette per seguire il loro demone politico: ed erano quelli che più urlavano contro la cadrega o agitavano cappi in Parlamento. Ma nessuno li può rimproverare per una pratica della politica così protratta nel tempo da assurgere a professione: se vengono eletti e rieletti: perché no? Quale vergogna ci può essere nel rappresentare il proprio popolo ̶ nel centrodestra, di recente, è raccomandato un brivido di compiacimento nel pronunciare questa parola ̶ per più mandati?
E non mette conto, infine, rammemorare la vecchia distinzione weberiana:
vivere di politica e vivere per la politica, la prima una scelta ignobile, la seconda un atto
nobile. Andiamo: un prete non vive forse
di
fede oltre che per la fede? E nella
concezione della politica esercitata als
beruf (come professione) secondo l’impostazione di Max Weber non è utile
rammentare che beruf in tedesco oltre che professione significa anche vocazione,
che il termine implica pertanto due
“possibili” narrativi, due
paradigmi di vita racchiudibili in un’unica esistenza: una professione che è
una vocazione e viceversa ?
Certo, la
politica non è questo idillio che forse qualcuno potrà desumere per antifrasi ironica
da queste note. Facile è rammentare
tutti i vizi della nostra classe
politica, quelli storici e quelli recenti: il trasformismo ondivago, il lobbismo opaco,
la corruzione sistematica, il clientelismo. Ma a tutti i connazionali che
puntano schifati il dito contro di essa nel sogno inconfessato di una politica senza politici, occorre quanto meno ricordare la
vecchia obiezione di Gaetano Salvemini,
che cioè «la classe politica è per il dieci per cento peggiore del Paese, per il
dieci per cento migliore, per il resto è il Paese».
Ho letto volentieri la tua colta e raffinata conversazione sul Parlamento e la politica in Italialand: una lettura "slow" che arricchisce ogni tanto ci vuole! Purtroppo dobbiamo constatare, nelle prime scomposte manovre dei partiti in vista delle prossime elezioni politiche, una predominanza della prima componente nominata nella citazione di Salvemini. Dopo sei mesi di governo d'emergenza in cui tutti dicevano "niente potrà più essere come prima nella politica e nei partiti...", lo scenario sembra tolto dalla naftalina con gli stessi buchi e le stesse macchie di unto che ci stavano portando nella spazzatura dell'UE. Speriamo che venga dato spazio alla seconda componente, confidando che il restante ottanta per cento eserciti il voto con maggior consapevolezza. Franca
RispondiEliminaCarissima, ritengo che davanti a un forte choc politico-economico gli italiani cambieranno registro. Del resto, solo quando furono portati nel cassoni di sabbia della Libia o nelle steppe russe capirono in che mani si erano messi... I connazionali mi piacciono e, come dire, "si è italiani così come si respira", ma temo che abbiamo bisogno di dure repliche della storia per capire che sono stati i nostri comportamenti collettivi (anche elettorali ovviamente) a portarci a questo punto. Dobbiamo solo sperare in meglio, ma sono piuttosto pessimista, ricordando che un pessimista non è altro che un ottimista ben informato...
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