lunedì 6 gennaio 2014

Le risposte che mancano

La battuta che ha provocato le dimissioni di Fassina è stata davvero infelice. Ma preoccupa di più che Renzi non si renda conto della ferita arrecata a quanti nel Pd considerano le questioni poste dal viceministro serie e meritevoli di risposte, che tuttora mancano.
Nessuno può chiedere al neosegretario di cambiare un registro comunicativo che si è rivelato fin qui vincente. Il problema però è che, da leader, non può pensare di eludere le domande che appartengono al normale confronto democratico, per di più usando toni liquidatori verso chi sta nel suo partito e non si trova d’accordo su una scelta, o su una strategia.
Renzi ha ribadito, anche ieri, che la sua priorità è imprimere un forte cambiamento al corso della politica. E che intende subordinare tutto a questo obiettivo. Ma Fassina gli aveva chiesto, appunto, di essere conseguente, di non limitarsi a sferzare il governo il più delle volte con toni poco amichevoli, insomma di rompere quel muro di separazione e di cambiare la squadra ministeriale del Pd per metterla in sintonia con l’esito delle primarie. A Renzi non piace parlare di rimpasto: ha ripetuto ieri che lo considera un rito della vecchia politica da rottamare. Tuttavia il suo giudizio estetico, pur così netto, resta un passo indietro rispetto ai temi sollevati dal suo interlocutore.
In cosa consiste l’auspicio di un radicale cambiamento politico, se chi lo propone non vuole sporcarsi le mani oggi con il governo, e anzi non perde occasione per disprezzare la sua maggioranza? Si ritiene sul serio che la legislatura possa superare il 2014 con un Pd che dia l’impressione di ritenere l’attuale quadro politico, non già l’esito di una rottura nel centrodestra che ha messo all’angolo Berlusconi, bensì l’ingombrante retaggio di un passato da dimenticare? Fassina ha posto queste domande non in astratto, ma all’indomani del varo della legge di Stabilità, che il nuovo gruppo dirigente del Pd ha accompagnato in Parlamento gareggiando nelle critiche (le famose «marchette»), talvolta persino nella delegittimazione. È a questo che Renzi non ha finora risposto con chiarezza. E per questo il suo «Fassina chi?» è suonato più come una reazione stizzita e liquidatoria che non come una battuta irriverente. Chi guida un partito ha responsabilità maggiori di tutti gli altri. L’azione di cambiamento che il leader deve promuovere non può essere disgiunta dalla costruzione continua del consenso democratico anche all’interno del partito. Aver vinto le primarie così nettamente non legittima un potere assoluto, né autorizza a interpretare il mandato come una cambiale in bianco. Una leadership forte è certamente un valore aggiunto, a condizione però che non consideri il partito come un peso, come un ostacolo nel rapporto diretto con l’opinione pubblica. Renzi ha mostrato intelligenza nell’offrire a Cuperlo la presidenza e nel confermare i capigruppo di Camera e Senato: tuttavia non bastano gli organigrammi a corroborare l’unità. È necessario uno stile, un metodo, anche per la comunicazione interna. Il Pd è il solo partito nazionale con struttura democratica. Ma mantenere questa caratteristica in un contesto dove i principali avversari sono rappresentati da due padri-padroni (Berlusconi e Grillo) non è facile. Il rischio che anche il Pd degeneri verso forme di leaderismo e populismo non è scongiurato per sempre. Ci vuole cura, e cultura democratica. Restano poi le questioni politiche sul rapporto tra il Pd, il governo e la durata della legislatura. Fassina non poteva che dimettersi, per dignità, di fronte ad un segretario che gli ha platealmente negato una risposta. Renzi, per parte sua, può legittimamente cercare di preservare un certo distacco dal governo in carica e dalla maggioranza, anche nel caso si raggiungesse l’accordo sul programma del 2014, a partire dalla riforma della legge elettorale. Ciò che però deve sciogliere è il groviglio di contraddizioni che questo distacco politico produce nella credibilità e nell’efficacia del governo. Quello di Enrico Letta non può (e non deve) diventare un esecutivo «tecnico» o un governo «amico» proprio ora che Berlusconi è finito all’opposizione e si appresta a rincorrere Grillo nell’anti-europeismo e nel radicalismo anti-sistema. Certo, se la minaccia di far saltare tutto oppure di ricorrere alle maggioranze variabili è soltanto la tattica di Renzi per strappare condizioni migliori ad Alfano, vuol dire che abbiamo scoperto un abile negoziatore. Comunque, più il programma di Letta per il 2014 avrà l’impronta del Pd, più il suo governo acquisterà un carattere politico, nel senso che il Pd risponderà maggiormente dei risultati positivi come degli insuccessi.
L’alternativa a questo scenario è quello di un Renzi che, invece, tira la corda per spezzarla. O meglio, per costringere Alfano a spezzarla. In questo caso il gioco di sponda sarebbe con Berlusconi: riforma elettorale e subito al voto. Al gioco non dovrebbero starci né Letta, né il Nuovo centrodestra (che oggi sono di Berlusconi i principali bersagli). Di tutto questo gli organi del Pd devono discutere. E presto. L’argomento che le primarie hanno dato mandato pieno a Renzi non può essere opposto a chi chiede un confronto: il segretario peraltro dispone di una maggioranza che lo tiene al sicuro. Piuttosto, anche Enrico Letta deve dire la sua. Non può accettare che il Pd tratti pure lui con questo distacco critico. Se Letta intende rivendicare di aver messo ai margini Berlusconi e di aver chiuso il «ventennio», non può cedere sulla caratura politica del governo e sull’inclusione della sua leadership nel nuovo corso Pd. Neppure Letta, del resto, è obbligato a restare a Palazzo Chigi a qualunque condizione. Al tavolo del programma 2014 ha interesse a costruire un quadro di riforme coerenti, non limitate alla sola legge elettorale. E anche la sua sfida personale può aiutare il Pd. Come può aiutarlo una sinistra che riorganizza le proprie idee e le mette a disposizione senza correntismi, magari sull’abbrivio di questo atto di ribellione compiuto da Fassina.
Claudio Sardo

5 commenti:

  1. Non leggo L'Unità, grazie dunque ad Alfio per aver pubblicato l'articolo.
    Dell'interessante articolo mi piace soprattutto il seguente passaggio:
    " Una leadership forte è certamente un valore aggiunto, a condizione però che non consideri il partito come un peso, come un ostacolo nel rapporto diretto con l’opinione pubblica. Renzi ha mostrato intelligenza nell’offrire a Cuperlo la presidenza e nel confermare i capigruppo di Camera e Senato: tuttavia non bastano gli organigrammi a corroborare l’unità. È necessario uno stile, un metodo, anche per la comunicazione interna. Il Pd è il solo partito nazionale con struttura democratica"
    Giustissimo, penso io, altamente condivisibile, ma allora come mai quando Bersani vinse le primarie nei confronti di Renzi, nessuno gli richiese una maggior partecipazione alla vita del partito di allora ed all'organizzazione della campagna lettorale, di cui ci sarebbe stato estremo bisogno, abbiamo visto? E soprattutto, come mai Renzi venne dapprima indicato come facente parte della delegazione della Toscana per andare a Roma ad eleggere il Presidente della Repubblica e poi non ci andò più? Non mi risulta che avesse rifiutato.

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    1. Ciao Gigi,
      per quello che mi ricordo fu "escluso" dalla delegazione perchè non era consigliere regionale. I grandi elettori sono consiglieri regionali.
      Roberto

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    2. Devo controllare, per la verità ricordo che i delegati regionali devono essere eletti dai consigli regionali, ma non mi ricordo se devono necessariamente essere eletti fra i consiglieri regionali.
      Se così fosse però mi chiedo per quale motivo quando fu detto che Renzi era "offeso" per essere stato ecscluso, non venne spiegato il motivo per cui non era stato eletto dal consiglio regionale.

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  2. Ma Gigi, han continuato a demonizzarlo dandogli del 'fascista' e del 'berluschino' come ai bei tempi del Comitato Centrale, e ora si offendono per una battuta su Fassina (che si poteva risparmiare). Ma che si son bevuto il cervello 1.900.000 elettori del Pd a votarlo segretario? Non si sono ancora ripresi dal colpo.

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    1. Ciao Marino,
      cerco di essere "sereno" come mi hai chiesto. Il problema non è stata la infelice battuta (purtroppo a Fassina rimarrà addosso nei secoli a venire, come trota per il figlio di Bossi e gli manca il quid per Alfano), ma il fatto che ad un problema politico, secondo me molto ben riassunto dall'articolo di Sardo la risposta sia stata una battuta Naturalmente si può essere d'accordo o meno con le argomentazioni di Fassina e di altri, ma forse la battuta è stata un modo infelice come dire "che cazzo stai dicendo Willy?".
      Roberto

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