Serve un nuovo Pd. Nell’Europa del dopo Brexit, nel mondo minacciato dai rischi di guerra e nell’Italia del 2016 così lontana dagli stessi tempi del Lingotto. Un nuovo Pd che rinnovi e aggiorni lo spirito di allora
Nella vita dei grandi partiti, con forti radici e che vogliono durare nel tempo, ci sono dei momenti nei quali si pone la necessità di operare dei salti, delle svolte che cambino aspetti essenziali della propria natura o di una “costituzione materiale” che con le sue incrostazioni rischi di tradire gli ideali di fondo per i quali quel partito è nato.
Si possono fare molti esempi. Nel 1926, all’interno del PCd’I, un nuovo gruppo dirigente guidato da Antonio Gramsci assunse la guida di un partito che dopo l’avvento del fascismo stava finendo, con la guida di Bordiga, in una deriva estremista e lo spinse a riconsiderare il ruolo della classe operaia in funzione delle alleanze sociali. Quel congresso del 1926, svolto a Lione in clandestinità, fu decisivo per il successivo profilo del comunismo italiano, aperto e critico e del tutto particolare rispetto ad altre esperienze europee. Nel 1944, tornando in Italia dopo l’esilio in URSS, fu Togliatti a parlare di “partito nuovo” spingendo i comunisti ad andare avanti sul solco segnato da Gramsci e a tradurlo in atto, praticando il metodo democratico e abbandonando la vocazione alla clandestinità che generava chiusura e settarismo. Ancora. La SPD tedesca, nel 1959, decise di abbracciare, anche teoricamente, il riformismo e di superare (pur senza abiurare le proprie radici) la visione rivoluzionaria e marxista del cambiamento sociale. La Democrazia Cristiana raccolse dopo la guerra l’eredità del Partito Popolare Italiano fondato da Sturzo ma ne accentuò le radici laiche pur senza rinnegare la propria identità di partito cattolico. Per difendere quella laicità De Gasperi pagò, negli ultimi suoi anni di vita, il prezzo di una abiura di Papa Pio XII che gli negò udienza fino alla morte per essersi opposto alla fatidica “Operazione Sturzo” che nel 1952 avrebbe compromesso il carattere laico della Dc, che invece era essenziale per garantirne la tenuta nel nuovo regime democratico.
Alla base di tutte queste vicende c’erano sempre nuove visioni del Paese, la necessità di rivedere aspetti fondamentali del rapporto tra una determinata tradizione e cultura politica, le forme dell’organizzazione politica e il rapporto con una società in rapido mutamento.
Anche per il Pd, a poco meno di dieci anni dalla sua nascita, è arrivato il momento di una svolta di fondo e di una «rifondazione». La spinta propulsiva generata dalla nascita del Pd si è esaurita. Il voto amministrativo (drammatico a Roma ma preoccupante per molte zone d’Italia) manifesta il rischio di un diffuso distacco dal popolo, la presenza di aree di degrado politico, un aggravamento dei fenomeni di degenerazione della vita interna nella forma esasperata di un correntismo interno di potere, l’allontanamento elettorale dei giovani, la debolezza nel contrastare la crescita del populismo, della demagogia e della diserzione elettorale e infine la incapacità di raccontare le buone cose fatte dal governo in carica e persino di farle conoscere nel merito.
A Roma, dopo un terribile colpo politico, non è stato possibile, trascorso un mese, nemmeno riunirsi per discutere. L’ho detto al commissario Matteo Orfini, di cui comprendo il compito duro ma al quale contesto, da sempre, un immobilismo nel favorire una nuova fase che liberi energie e impedisca la dissoluzione crescente di un partito che nella Capitale è, di fatto, morto. Ed auspico che sorga una iniziativa sovversiva dal basso che imponga il ripristino delle più elementari modalità di vita democratica. Ma Roma è il fenomeno più grande di una situazione che, in molte altre zone del Paese, non è qualitativamente diversa.
Ce n’è abbastanza per dire che così non va. Che così non si può andare avanti e che se non si affronta in modo straordinario il tema della ricollocazione del patrimonio del Pd nella società italiana si può correre il rischio di una dissoluzione o di una silente riduzione del Pd ad accolita di gruppi consortili di ceto politico in cerca di una salvezza di classe. Non basta, per affrontare la complessità di questo problema, qualche stanco appello allo “scioglimento delle correnti” (magari di chi le ha sempre coltivate e continua a farlo) o un volontaristico richiamo alla necessità di fare maggiore propaganda al buon governo nazionale. Il Partito non fa politica e quindi non racconta bene il buongoverno perché non vive di politica ma soffre di una vera e propria stenosi che ne blocca la linfa vitale e lo soffoca. Il Pd da troppo tempo vive, nei territori, senza pluralismo politico. E’ immerso in un conflitto di potere tra consorterie che litigano solo sui posti ma non esprimono mezza idea che sia mezza. La nostra classe dirigente diffusa scade di giorno in giorno e per un preciso motivo: i singoli sentono di meno la necessità di essere “bravi” per emergere ma percepiscono la strada più facile dell’infeudamento.
Ho visto in questi tre anni al lavoro i parlamentari Cinque Stelle. Molto folclore, molta approssimazione certo. Anche correntismo i
ncipiente. Ma anche tanti ragazzi e professionisti che si sono messi a studiare e vogliono crescere dimostrando di essere più bravi. Noi del Pd non siamo più “bravi” degli altri per decreto. Ma dobbiamo re-imparare ad esserlo e a dimostrarlo. Ancora. Abbiamo davanti un referendum sulle riforme costituzionali. Occorre ripristinare rapidamente il carattere naturale di questa consultazione che non è sul governo ma sul buon funzionamento della Repubblica. Certo. Se prevalesse il No il governo ne subirebbe le conseguenze. Ma il modo migliore per evitarlo è proprio non perdere il carattere naturale del voto.
Diciamo chiaro e forte che questo non è un referendum sul governo. E soprattutto – il che spetta al segretario – che questo non è un risultato personale. Ma l’esito sofferto e ventennale di un lungo percorso del centrosinistra e dell’Ulivo che da 20 anni cerca la strada di una modernizzazione della forma dello Stato e delle regole. E che se in passato non ci siamo riusciti non è stato per cattiva volontà o per insipienza ma per un preciso dato politico: la destra italiana, con Berlusconi, era più forte e ogni volta ha lavorato con successo per far saltare le intese larghe che debbono essere alla base delle riforme costituzionali. Renzi ha avuto condizioni politiche più favorevoli – sotto questo aspetto – di Prodi, D’Alema, Veltroni e Bersani. Queste riforme sono patrimonio di una storia che tutto il nostro popolo deve essere messo in condizioni di ricordare per esserne orgoglioso e non perdere una identità.
Dopo il referendum ci sarà poi un congresso. Non abbiamo bisogno di un congresso ordinario. Né di una conta tra correnti federazione per federazione. Come le attuali regole inducono a fare. Abbiamo bisogno di un Congresso straordinario. Anche con altre regole che l’Assemblea Nazionale dovrebbe essere chiamata a ridefinire. Un congresso politico e non una conta di liste per comporre degli organismi. Credo che il Segretario, che io ho sostenuto e nel quale continuo a riconoscermi, Matteo Renzi, non debba sottovalutare questo momento è questo aspetto. Abbiamo bisogno di un Congresso per Tesi. Che parta da un Documento politico fondamentale che delinei una nuova analisi dell’Italia e del mondo. Un documento su cui riorganizzare il nostro pluralismo e dare una base politica aggiornata e fresca alle candidature a Segretario, compresa quella di Renzi. Che riapra le porte ad una partecipazione individuale libera e non infeudata.
Questo è il solo modo per “rottamare” le consorterie attuali che innervano questo Pd. Per generare delle sane “correnti” politiche. Per usare davvero il “lanciafiamme”. Non basta più una identità del Pd basata sull’idea di riunire le “tradizioni politiche democratiche” affiancata dal mantra della “rottamazione” e delle “riforme”. Serve un nuovo Pd. Nell’Europa del dopo Brexit, nel mondo minacciato dai rischi di guerra e nell’Italia del 2016 così lontana dagli stessi tempi del Lingotto. Un nuovo Pd che rinnovi e aggiorni lo spirito di allora.
Roberto Morassut - L'Unità 21 Luglio 2016
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