Il
passaggio da Berlusconi a Renzi coincide con un salto di qualità
della politica autoritaria, che alle leggi ad
personam
del primo ha fatto seguire addirittura la Costituzione ad
personam
del secondo. Una Costituzione alla quale io sono contrario, e contro
la quale voterò “no” al referendum confermativo, perché mi
sembra che essa offenda l’elettorato su tre piani diversi: per il
“chi”, il “come” e il “cosa”.
Il
“chi” si riferisce ai soggetti politici che hanno voluto, stilato
e votato la riforma. Non si deve infatti dimenticare che la
Costituzione entrata in vigore il 1 gennaio 1948 era il frutto di un
anno e mezzo di lavoro di un’apposita Assemblea Costituente, che da
un lato aveva appunto ricevuto l’esplicito mandato di scrivere la
Carta, e dall’altro lato era stata eletta in maniera proporzionale
in un’elezione alla quale partecipò la quasi totalità (l’89%)
degli elettori aventi diritto.
La
riforma costituzionale sottoposta a referendum è stata invece
approvata, anzitutto, da un parlamento eletto in maniera
maggioritaria nel 2013, con il cosiddetto Porcellum. Grazie al premio
di maggioranza da esso attribuito, alla Camera la coalizione di
centro-sinistra ha ottenuto 345 seggi su 630 con il 29,55% dei voti
espressi, la coalizione di centro-destra 124 seggi con il 29,18% dei
voti, e il Movimento Cinque Stelle 105 seggi con il 25,56% dei voti.
A
quell’elezione ha partecipato solo il 75% degli aventi diritto. In
realtà, dunque, sia il centro-sinistra che il centro-destra non
rappresenta(va)no in Parlamento che il 22% circa degli elettori, e il
Movimento Cinque Stelle il 19% circa: tutte piccole minoranze, cioè.
Ma il centro-sinistra ha comunque ottenuto la maggioranza assoluta
dei seggi alla Camera, grazie appunto all’indegna legge
maggioritaria.
Come
se non bastasse, la Corte Costituzionale ha dichiarato in seguito
incostituzionale l’abnorme premio di maggioranza da essa assegnato,
pur non annullando le elezioni e non dichiarando decaduto il
Parlamento eletto con la “legge truffa”. La decenza politica
avrebbe comunque richiesto che un tale Parlamento si limitasse a
gestire l’ordinaria amministrazione, invece di arrogarsi
addirittura il diritto di cambiare una Costituzione approvata a suo
tempo nei ben diversi modi descritti sopra, e per cambiare la quale
l’elettorato non aveva dato alcun mandato esplicito.
Alla
faccia della decenza, a volere e a fare la riforma è stato invece un
Partito Democratico che rappresenta soltanto il 25% dei voti
espressi, pari a circa il 18% degli aventi diritto (dunque, meno del
Movimento Cinque Stelle), ma che ha alla Camera ben 297 seggi,
ottenuti grazie a un premio di maggioranza che però veniva assegnato
alle coalizioni, e non ai partiti! Peccato che quelle coalizioni ora
non esistono più, perché si sono sfaldate nei tre anni di
legislatura, con la conseguente transumanza di deputati e senatori da
un gruppo parlamentare all’altro.
Per
completare il quadro va ricordato che il governo è presieduto da
Matteo Renzi, che non era candidato alle elezioni del 2013, e ha
scalato Palazzo Chigi grazie alle sole primarie di fine 2013 per la
segreteria del Partito Democratico: elezioni alle quali hanno preso
parte meno di tre milioni di elettori, cioè solo circa il 6%
dell’elettorato, meno di due milioni dei quali hanno votato per
Renzi.
L’attuale
presidente del Consiglio non è stato dunque eletto dal basso, dagli
elettori, nonostante da decenni in Italia sia appunto in vigore un
sistema elettorale maggioritario. Ed è stato invece nominato
dall’alto, direttamente dal presidente della Repubblica, con un
colpo di mano che si può vedere come un “colpo di Stato
istituzionale”: probabilmente conforme alla lettera della
Costituzione, ma sicuramente contrario allo spirito della legge
elettorale vigente.
Passando
al “come” della riforma costituzionale, essa è stata pensata e
imposta in modo raffazzonato e autoritario proprio da un presidente
del Consiglio di tal fatta. Il quale ha disatteso e tradito il suo
ruolo di “capo dell’esecutivo”,
esautorando e spodestando sistematicamente il Parlamento dal proprio
ruolo di “organo legislativo”.
Incurante del fatto che la divisione dei poteri richieda invece che a
proporre e approvare le leggi debba essere il Parlamento, e che il
governo debba appunto eseguirle e attuarle.
Con
il comportamento tipico più del bullo del quartierino che del padre
della Patria, Renzi ha fin dall’inizio cercato di imporre in aula
non un progetto di Costituzione meditato ed equilibrato, con i pesi e
contrappesi tipici della democrazia, ma una serie di pensate a
girandola che sognava la sera e pretendeva che fossero approvate la
mattina: ogni volta “mettendoci la faccia”, ogni volta perdendola
regolarmente, ma non traendo mai alcuna volta le necessarie
conseguenze politiche del mancato mantenimento delle proprie promesse
da marinaio.
Invece
di affidarsi agli esperti, dai costituzionalisti (che per lui hanno
il grande torto di aver passato la vita a studiare appunto le
costituzioni) ai teorici delle scienze sociali (dei quali
probabilmente non ha mai nemmeno sentito parlare), ha preferito
etichettarli tutti come “professoroni”, e opporre loro il motto
di una delle sue peggiori ministre: il “porto in dote la mia
inesperienza” della raccomandata veltroniana Marianna Madia, che
come lui avrebbe più propriamente dovuto parlare di pura e semplice
ignoranza, più che di inesperienza.
Le
guasconate del presidente del Consiglio hanno ricevuto solo una
debole e pavida opposizione da parte dei parlamentari del Partito
Democratico, la maggioranza dei quali non ha avuto problemi a tradire
il mandato che avevano ricevuto dagli elettori di centro-sinistra,
sulla base di un programma elettorale contrapposto a quello di
centro-destra imposto dal loro nuovo segretario. Ma il conseguente
sfaldamento della coalizione di centro-sinistra ha reso necessario il
procacciamento di voti all’esterno del partito, e per attuare il
suo progetto autoritario Renzi si è dovuto rivolgere in soli due
anni a ben tre altri guasconi: Silvio Berlusconi agli inizi, Angelino
Alfano nel mezzo, e Denis Verdini alla fine.
La
riforma costituzionale è dunque il parto di un “un uomo solo al
comando”, non eletto e incompetente, che presiede un governo a
maggioranze tanto variabili quanto il vento, che è sostenuto da
manipoli di parlamentari voltagabbana, che sono stati eletti in
maniera incostituzionale. A bocciare la riforma con un sonoro “no”
basterebbe dunque la constatazione che “il modo ancor ci offende”:
espressione, questa, di qualcuno che non a caso ci teneva a
sottolineare di essere florentini
natione, non moribus.
Ma
oltre il “chi” e il “come”, a offendere è anche il “cosa”
della riforma: cioè, il suo contenuto, indipendentemente da chi l’ha
voluta e dal come è stata approvata. In particolare, la sostanziale
abolizione del Senato costituisce l’altra faccia della medaglia
dell’Italicum: un’ennesima “legge truffa” elettorale, che non
a caso ricorda nel nome un altro grave disastro del nostro paese.
La
“giustificazione” propagandistica per la riduzione del Parlamento
alla sola Camera è duplice: nell’attuale sistema ci sarebbero due
rami uguali, che raddoppiano i tempi di approvazione delle leggi. In
realtà, il Senato non è mai stato uguale alla Camera, come dimostra
appunto il fatto che le leggi rimbalzassero dall’uno all’altra:
cambiavano infatti l’elettorato attivo, il sistema d’elezione e
il numero degli eletti. E comunque il problema del nostro paese non è
mai stato l’abnorme numero di leggi approvate, ma la loro infima
qualità.
Il
paese, semmai, avrebbe molto più bisogno del sano “meglio meno ma
meglio” di Lenin, che non dello sciocco, e soprattutto falso,
“meglio qualcosa che niente” di Renzi. Perché è sicuramente
vero che per migliorare si debba fare qualcosa, ma non è affatto
vero che qualunque cosa si faccia è un miglioramento.
Nella
fattispecie, il progetto renziano si riduce in sostanza al tentativo
di sostituire la “governabilità” alla “democrazia”. Renzi
gioca sulle parole, al riguardo. In parte per indole, perché gli
attivisti come lui prediligono il far presto al pensare bene. E in
parte per furbizia, perché per gli industriali che lo sostengono
(Marchionne, Elkann, De Benedetti, Farinetti, eccetera) è più
facile trattare nell’ombra con un governo decisionista che risponde
solo a loro, che non con uno democratico che risponda invece agli
elettori.
Purtroppo
per Renzi, ma soprattutto per gli italiani, governabilità e
democrazia “insiem non puossi per la contraddizion che nol
consente”. Non è un caso che la governabilità sia da sempre il
cavallo di battaglia degli “uomini forti” che hanno già provato,
con maggiore o minore successo, a disinnescare o silenziare la
democrazia in Italia: da Mussolini a Craxi a Berlusconi.
E’
proprio perché la governabilità tende per sua natura a contrapporsi
alla democrazia, che dico “no” alla riforma costituzionale di
Renzi: perché non vorrei perdere in futuro il diritto democratico di
dire “no” al bullo politico di turno. Ma se non ci saranno
abbastanza altri elettori a dire “no”, quella sarà la nostra
ultima occasione di dire “no”. Poi ci toccherà cantare “sì”
tutti in coro a chi governerà col 20% dei voti, incurante del
democratico dissenso dell’80%.
Ps.
Allego qui una videointervista
su questi stessi temi.
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