domenica 25 agosto 2013

Il disprezzo per i secchioni

La spinta a conformarsi verso il basso, a scegliere come modello di eccellenza il più indisciplinato, il più caciarone, il più somaro, è molto evidente nella società italiana. Andrebbe trattata come un paragrafo della sindrome di arretratezza socio-culturale del nostro Paese. Che il primo della classe venga schernito, insultato, vilipeso, o addirittura spinto al suicidio (come purtroppo è successo, basta ricordare alcuni fatti di cronaca) è un’indicazione preziosa di quella che è la base morale  della società italiana. Premesso che il ricco e il furbo (spesso ricco perché furbo) desta la massima ammirazione come modello, non sfugge invece il persiflage, lo sfottò, per usare il termine canonico leopardiano (Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani, 1826) verso il sapere, il merito e l’eccellenza. C’è un controllo sociale feroce degli incolti verso le persone colte (spesso guardate con sospetto o svalorizzate: "parla come mangi", ma loro non mangerebbero mai però come parlano), nulla di quella ammirazione compunta che la società francese riserva ai savants, a les intellos etc: è proprio un desiderio di ridurli al proprio livello, il più infimo possibile.
Non è un caso che Mike Bongiorno furbescamente abbia determinato la propria fortuna mostrandosi sempre al di sotto di ogni sapere medio, sbagliando a bella posta i congiuntivi o le nozioni più elementari, per mettersi “allo stesso livello” dei telespettatori, col preciso intento di non irritarli, di non disturbarli; allo stesso modo il cantante Celentano mena vanto della propria semplicità non proprio francescana, ma furba, bertoldesca, dichiarandosi “il re degli ignoranti”. La stessa cosa fa l'ex magistrato Di Pietro, che parla dipietrese, ma che intende implicitamente sottintendere: io parlo genuino, sono uomo di fatti e non di parole...Di questo fenomeno ci hanno avvertiti sia Umberto Eco col suo Diario minimo, sia Luciano Bianciardi, che scriveva acutamente nell'Antimeridano pubblicato qualche anno fa:  «I nostri presentatori della televisione avevano successo, e lo hanno, in quanto riassumono ed esprimono certi difetti, certe tare nazionali. Mike Bongiorno ne riassumeva più di tutti, ed ecco perché lo possiamo stimare il più mediocre, quindi il più bravo»

3 commenti:

  1. Quando l’Italia era divisa in regni, ducati, repubbliche, e in altre entità minori, che spesso passavano da un padrone all’altro, per di più straniero, vigeva il detto ‘che c’importa di Francia o di Spagna purché se magna’, indice della perdita di dignità di un popolo. Nonostante ciò venne poi il Risorgimento, con tante belle figure anche se in genere provenienti dalla borghesia, se non dall’aristocrazia, intelligente e portatrice di una visione che trascendeva i propri interessi. E poi ancora –dopo l’ubriacatura fascista- la Resistenza e i partiti di massa, che in qualche modo fecero da ‘educatori di masse’, e la stagione dei diritti (anni 60 e 70), pur con la macchia del terrorismo. Ciò non ha cancellato antichi vizi del ‘carattere italiano’, la furbizia, lo spirito di sottomissione al potente, l’ipocrisia, il fastidio per le regole e quindi per lo stato, il familismo, ma li ha tenuti in sordina. Ed ecco che mentre ci si persuadeva di essere entrati nella modernità (5^ potenza nell’economia mondiale, l’Europa, la scolarizzazione di massa, reddito pro-capite che s’avvicina a quelli europei, l’estensione dello stato sociale, una sinistra finalmente riformista, e l’elenco potrebbe allungarsi), precipitare di nuovo con Berlusconi e i berluscones – che in massimo disprezzo tenevano e tengono la cultura e i bourgeois savants- nell’arretratezza civile (ora anche economica) da cui cerchiamo con molta fatica di uscire. Ma, come in altri momenti, ne potremo uscire purché ‘i morti non tengano per i piedi i vivi’, cioè che le vecchie classi dirigenti lascino il passo a quelle emergenti (Alfio aiutami per l’autore della citazione).

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  2. "Le mort saisit le vif"? Il morto afferra il vivo, è un brocardo giuridico francese, che vuol dire che i beni del morto passano al vivo senza formalità di giustizia (secondo il dizionario storico di Bescherelle, 1856). Il modo di dire è stato ripreso da Marx in qualche suo scritto con il significato che il passato agisce e reagisce sul presente, ossia le forme vecchie afferrano quelle nuove. Pare che il motto derivi dalla particolare ed efferatissima morte inferta nel Medioevo, allorché si legava una persona morta a una viva, e quest'ultima veniva aggredita dalla putrefazione della persona morta,"vedendosi" morire. Ma ormai il motto è entrato nella pubblicistica e se n'è persa la prima fonte. Del cosiddetto "carattere nazionale" mi sono occupato per un decennio; e nel 2000 ho curato per una piccolissima casa editrice la postfazione al saggio del primo studioso serio del carattere nazionale italiano, ossia quel Leopardi di cui ho parlato nel testo. Per quanto riguarda il nuovo e il vecchio, ho conosciuto giovani più vecchi dei vecchi, nel modo di pensare e di stare al mondo...

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    1. Grazie per l'approfondimento sul 'morto che afferra il vivo'. In quanto al tema 'generazionale', è vero, ci sono giovani avvizziti anzitempo (e qui parlo del cervello) e vecchi ancor pieni di risorse, anche intellettuali. Tuttavia, in via del tutto generale, poiché il futuro è -fino a prova contraria- dei giovani, è bene che se lo costruiscano da sé, nel bene o nel male, e che i 'vecchi' li accompagnino fin quando possibile e senza la pretesa di essere insostituibili.

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